
Megainchiesta a Milano tra i meandri dell’urbanistica. Oggetto: fame di cemento.
“Non posso far spuntare torri dove non c’è nulla“. Lamenta il sindaco Giuseppe Sala. Evidentemente spuntano torri solo in terreno fertile.
Milano da bere era il tormentone degli anni ’80. Milano da mangiare, Milano da torrificare, tormentone 2025.
L’Urbanistica storica di scuola e dei grandi maestri progettava la struttura del territorio secondo le esigenze flessibili del sociale e dei servizi correlati. Dalle agorà greche, ai fori romani, alle terme, basiliche, mercati, l’asse portante era la funzione che creava economia e maturazione sociale. Spesso fu anche rappresentanza della grandezza del potere e “pulizia” civica. Come, nei casi più vicini, la distruzione della Spina di Borgo a Roma, nel ventennio italico, e la distruzione delle Halles a Parigi.
A partire dall’Ottocento schemi burocratizzati hanno perseguito in nome del “decoro”, dell’ordine pubblico, dell’igiene, la vita secolare di quartiere e di vicinato. Il percorso lento ma inesorabile procedette sostanzialmente verso lo svuotamento degli aggregati storici e verso gli alveari condominiali come unità primarie abitative. Gli spazi vitali di aggregazione e gestione pubblica si sono avvizziti a favore di privilegi riservati piuttosto al privato.
La prima volta che in Italia si ha una progettazione del territorio “partecipata”, dal “basso” come si diceva, è con l’architetto Giancarlo De Carlo, negli anni settanta. Con il suo gruppo, coinvolge le categorie sociali interessate nella progettazione del “Villaggio Matteotti“, a Terni. È stata una sperimentazione interessante, pur nei suoi limiti, in accordo con la mutevolezza delle stratificazioni socio-culturali del momento. Tracciò comunque una direzione non più seguita.
Oggi non è riproponibile, dal momento che si è volatilizzata la microstruttura produttiva estesa artigiana, fagocitata dalla grande produzione. E d’altro canto è latente un’idea di futuro, di volontà di sperimentazione e programmazione di governo.
Come altri settori, attualmente, quella che indichiamo come urbanistica è in buona parte soverchiata e snaturata da spinte finanziarie di rendita. L’antropologia dell’abitare che un tempo aggregava, quasi d’istitnto, architetture e funzioni collettive si è permesso che si estinguesse
“In meno di 10 anni a Milano si è costruito più o meno il 10% delle volumetrie di tutta Italia”.
Afferma Elena Granata, docente di urbanistica al Politecnico, e descrive quanto sta succedendo (ed è successo) tecnicamente sul territorio metropolitano milanese.” C’è stata una densificazione urbana veloce, in altezza e di lusso. E questo porta inevitabili conseguenze”.
La maggiore di queste è l’impatto ambientale. Con la fungaia delle “torri” è vero che si è evitato il consumo di territorio costruendo in altezza, ma contemporaneamente si originano una serie di conseguenze nefaste collegate e interdipendenti. Non ultimo, ne risente il modello democratico stesso.
«Si tratta di mettersi d’accordo almeno sul fatto che l’ambizione civile di Milano non è rappresentata da grattacieli costruiti nei cortili» riafferma Granata.
E il lasciapassare data all’Expo del 2015, di cui fu emblema il grande albero-icona.
Una consuetudine, che poi diventò legge, impediva alle costruzioni di superare la quota della statua simbolo, la Madonnina sul Duomo (108.5 metri). Ma negli anni fu sorpassata con deroghe. L’dea che la Madonnina dovesse vegliare su Milano da un’altezza esclusiva fu mantenuta con sottile escamotage: porne una riproduzione sulla copertura della costruzione fuori limite. La prima fu posata sul Pirellone (127 m.), con una riproduzione di 80 cm., seguirono il Palazzo Lombardia (161 m.), Torre Allianz (210 m.), Torre Unicredit (231 m. – nel 2024 acquistata dal Fondo Sovrano del Qatar) attualmente la punta più alta con… Madonnina .
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Provo a prescindere dai risvolti giudiziari, solo un mio pensiero, pensare che l’Italia fatta di storia, di borghi bellissimi, di arte nascosta debba avere una città che somigli a New York, ma non è New York e’ qualcosa che mi lascia perplessa.
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